Descrizione
Questo libretto di Pizzingrilli, fatto di brevi racconti, storielle, dialoghi, domande e risposte fulminee, e altrettanto improvvisi e misteriosi silenzi, squarci di paesaggio dove la macchina da presa si distrae e si riposa, sogni e brusche inquadrature realistiche, ha uno stile di trascurata e rigorosa efficacia che richiama i primi film di Nanni Moretti: stessa istintiva, epidermica intelligenza dei fenomeni contemporanei, stessa comicità imperturbabile che emerge da un mare di stupidità sonnacchiosa. Ma Pizzingrilli è anche un surrealista un po’ di tradizione, un epigono di surrealisti di provincia alla Delfini, pieni di una vitalità che si sfoga nel giocare con le parole, pieni di una voglia e di una richiesta di vita che non sa come spendersi, e finisce triste e inappagata come una domenica di paese. Squallore, irriverenza, antichità, buffoneria, nonsenso sono i fili lungo i quali si sdipana una gita in pullman di dodici amici lungo l’Adriatico, dodici tra maschi e femmine sotto la guida di un capo, un maestro, il portatore di un verbo non meglio precisato e anzi imprecisabile. La gita è raccontata come una sorta di noncurante romanzetto teologico – anche troppo creduto – coi suoi massimi problemi: Dio, l’esistenza del male, il desiderio, l’amore. “Che cos’è la vita altrui?”, è una delle domande che si fa Pizzingrilli, formulata a inizio di capitolo con la composta serietà della faccia di Buster Keaton; ma anche, a bruciapelo, con piena legittimazione: “Qual è la ragione per la quale uno è abitante di Ascoli Piceno?”, mentre una polvere che sa di tragedia più che di farsa si deposita e lascia uno strato di vanità e di vecchiume su tutto. I profondissimi è dunque un vangelo, un piccolo vangelo osceno, grottesco, derisorio, lievemente profanatorio; dove mai Pizzingrilli – e torna a suo grande merito – si fa pescare in sospetto di parodia. La sua pagina è sempre innocente, sempre limpida, sempre comica – e sempre tristissima, come un’operetta morale. Ho letto queste paginette trovandomi spesso esilarato, e le ho chiuse col rammarico di congedarmi da Basso Sabbatini, Marisa Anconetani, Rabboni, Maria Pia Nave Pistilli, ecc. ecc., senza più ritorno. Avevo vissuto per un po’ con questa gente, con questi dodici sciagurati dai nomi che sono già un racconto di per sé, e mi sentivo ormai uno di loro.